Gilardoni: un’azienda che fa discutere

Rapporti sempre più difficili tra lavoratori e dirigenza

23 Marzo 2016
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Da tempo sono accesi i riflettori sulle manifestazioni dei lavoratori della Gilardoni SpA di Mandello del Lario.

L’azienda con un breve comunicato stampa a firma “Ufficio Personale” ha riferito che sono tanti i posti di lavoro vacanti che si sta cercando di colmare a riprova di essere un’azienda in espansione. Eppure, a sentire i lavoratori e gli ex lavoratori, le cose non starebbero proprio così. Ci parlano di uffici quasi vuoti rispetto a 3/4 anni fa, di importanti funzioni aziendali scoperte a cui è sempre più difficile poter sopperire sia dall’interno sia con nuove assunzioni, visto che nel comprensorio molti, conoscendo ciò che si dice sul clima aziendale, preferiscono non tentare neanche la carriera lavorativa (a conferma anche molte agenzie interinali della zona che parlano di difficoltà dei lavoratori non solo in fase operativa, ma anche sin fase di colloquio e pertanto preferiscono non sottoporre più candidati all’azienda).

Negli ultimi 5 anni sono più di una cinquantina i casi di lavoratori licenziati, o non confermati, o dimessisi, più che per aver trovato una nuova occupazione, perché esausti, sfiniti, e preoccupati.

I lavoratori riferiscono di “rapporto lavorativo-ambientale sempre più logorante e difficile da sopportare” oltre all’enorme difficoltà a poter ricevere permessi per effettuare donazioni Avis o per la Legge 104.

I lavoratori ovviamente hanno paura di parlare e descrivere cosa realmente avviene all’interno dell’azienda perché, temono la conseguenza di poter perdere il proprio posto di lavoro che vuol dire, per molti, impossibilità al sostegno familiare. Si teme che, una volta contestata all’azienda una qualsiasi mancanza, anche minima, si prospetti  una lunga teoria di ripercussioni anche epistolare, di contestazioni di qualsiasi tipo, preludio alla lettera finale di licenziamento che comprensibilmente si vuole evitare, oltre che per l’epilogo finale, perché il solo rispondere ad ogni “richiamo all’ordine” assorbe tante energie, tempo, denaro con tutto il malessere che ne consegue.

Molti che suppongono esserci in Italia “giudici filo-lavoratori” si chiedono quale timore si dovrebbe avere se per vedere riconosciuti i propri diritti basta “fare vertenza” alla propria azienda? Per i lavoratori Gilardoni in primis, e lecchesi in generale, non è proprio così. Per i primi infatti da un po di tempo a questa parte in caso di vertenza, si ha l’obbligo di dover passare per competenza territoriale dal giudice di Lecco (provincia in cui è presente la sede operativa dell’azienda) e non più da quello di Milano (dove ha sede legale), e fino a qui apparentemente nulla da rilevare, se non fosse altro che, presso il Tribunale di Lecco, c’è un solo giudice del lavoro, non quindi una pluralità di giudici a poter garantire un giudizio il più sereno e distaccato possibile già dalle prime fasi del rito Fornero (ordinanza/­sentenza), soprattutto considerate le numerose e sempre maggior frequenti cause in cui sono coinvolti le medesime parti. Sembra addirittura (ci riferiscono alcune parti e relativi avvocati) che tale unico giudice sia solito comportarsi durante le fasi processuali con modi, seppur legittimi, sbrigativi, sommari e spesso senza neanche ammettere i testimoni richiesti dalle parti come se i fatti da giudicare fossero già chiari ed evidenti (abbiamo visto lavoratori/trici espulsi dalle aule del tribunale piangere per i sopraccitati modi con cui veniva trattata la drammaticità del proprio caso di licenziamento) tant’è che ci risulta che alcuni giuslavoristi di Lecco abbiano più volte chiesto a chi di competenza la “sospensione/allontanamento” del suddetto giudice, ipotizziamo anche per il fatto che la quasi totalità dei casi visti l’esito riscontrato ì sempre stato avverso ai lavoratori, sia dell’ordinanza e sia della successiva sentenza, salvo poi “essere ribaltato” nelle successive sentenze della Corte di Appello competente (Milano).

E’ tutto questo che intimorisce maggiormente i lavoratori nell’intraprendere o proseguire iter giudiziali, si teme oltre al danno, la beffa di perdere tempo, tant’è che molti, sfiniti, logori e depressi al termine del rapporto di lavoro, o non intraprendono affatto azioni giuridiche o, una volta vistosi con il rito Fornero soccombenti in quel di Lecco, “loro malgrado” desistono dal procedere a Milano anche per timore di dover incorrere, da disoccupati, in ingenti spese legali da anticipare. Coloro che lo fanno invece, in nella quasi totalità dei casi, trovano dopo lungo ed astioso percorso, riconosciute le proprie ragioni in corte d’Appello di Milano e vedono ribaltata la sentenza a proprio favore.

Detto questo, seppur è vero che la responsabilità dei Magistrati ad oggi non è prevista, a nostro avviso le autorità competenti del territorio dovrebbero entrare nel merito delle motivazioni di cui al Tribunale di Lecco prima e di quello di Milano dopo, e, verificate essere troppo spesso opposte (ed in conclusione a favore di lavoratori ingiustamente licenziati), convincersi della necessità di una maggior pluralità di giudizio già c/o il Tribunale di Lecco, affinché a tutti possano permettersi e sia loro garantito un “processo equo”.

E’ da rilevare inoltre, che, qualora un licenziamento dovesse essere giudicato illegittimo, si ritene che ad essere penalizzato non sia solo il singolo lavoratore, ma anche “la cosa pubblica” nel suo patrimonio in quanto a seguito di licenziamento (a torto o a ragione che sia) la disoccupazione viene pagata/anticipata dall’INPS fino ad eventuale sentenza di illegittimità del licenziamento, dove sarebbe poi l’azienda a dover pagare il lavoratore e l’INPS rientrerebbe di quanto anticipato/versato. E’ pertanto di pubblico interesse, non solo a livello sociale, ma anche economico (viste le conseguenze di destinazione del denaro pubblico) che già nelle prime fasi di giudizio, la meticolosità e la pluralità di giudizio fossero massime così da evitare “errori” e consentire di allocare le risorse dell’INPS in modo più utile per l’Inter collettività.

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